Le cinque condizioni imposte da Netanyahu per la pace a Gaza scriverebbero la parola fine all’obiettivo dei due popoli e due Stati.
Un piano da 18 milioni di dollari al giorno per almeno cinque mesi, con 50mila uomini e cinque divisioni. Passa per questi numeri e queste cifre la strategia approvata dal gabinetto di sicurezza del premier israeliano Benjamin Netanyahu affinché si possa parlare di pace a Gaza.
Una strategia che passa per l’occupazione e per cinque condizioni imposte, che inevitabilmente riguarderanno anche gli abitanti della Striscia: il disarmo di Hamas, il ritorno dei 50 ostaggi israeliani (di cui 20 sicuramente vivi), la smilitarizzazione di Gaza, il controllo della sicurezza da parte di Tel Aviv. Infine, un governo civile che non sia né Hamas né l’Autorità Palestinese.
Condizioni che rischiano di porre fine una volta per tutte all’intento dei due popoli, due Stati, che già adesso sarebbe difficilmente applicabile. Bisognerebbe infatti, prima ridefinire i confini che dal 1967 sono completamente cambiati. Ma senza questa soluzione, difficilmente la comunità internazionale approverebbe il piano per la pace di Israele.
Netanyahu perde il consenso dei cittadini ma va avanti lo stesso
“A Netanyahu e ai suoi ministri non interessa nulla dell’approvazione internazionale”. Lo dice ai nostri microfoni il collega Matteo Giusti, giornalista di Limes esperto del Medio Oriente. “Applicare la soluzione due popoli due Stati per Israele è inaccettabile. A livello politico al governo non interessa. Il refrain continuo di questa idea, basandosi sulle mappe e sui territori del 1967, non è fattibile da vent’anni, perché i coloni hanno occupato il 20% della Cisgiordania e nessuno li caccerà, neppure l’esercito israeliano. Si tratterebbe di uno scontro militare, perché sono armati”.
L’OCCUPAZIONE DI GAZA DI ISRAELE
E pure ridefinire i confini è complicato, ovviamente. Le cinque condizioni imposte non rappresenteranno la fine della guerra e rischiano di far perdere a Netanyahu ancora di più il consenso degli elettori. Per portare a termine la smilitarizzazione “servono 50mia uomini che facciano turni da cinque mesi. Significa che tutti i riservisti dovranno andare a Gaza ad occupare il territorio, porre sotto stress tutta la popolazione, compresi gli ultra-ortodossi che pensano di essere esentati, ma anche loro saranno richiamati alle armi”.
L’operazione di smilitarizzazione non sarà affatto semplice, ma il governo di Netanyahu resterà dov’è, anche perché “l’opposizione langue, il presidente Herzog, che è un laburista, non si fa neanche sentire. Nonostante i mille distinguo la destra di Israele continua ad appoggiare il governo. Netanyahu è ancora politicamente vivo e al momento non rischia spallate”. Dunque: il governo non cadrà.
La questione umanitaria: oltre un milione di persone spostate
Ma cosa vuole davvero il premier israeliano? Le cinque condizioni presentare sono un programma militare e politico. Due sono i punti fondamentali. Il primo ha a che fare con lo spostamento di oltre un milione di persone, dunque ancora una volta in questa guerra si pone la questione fondamentale dei diritti umanitari.
Chi amministrerà Gaza? Né Hamas né l’Autorità palestinese, ma i beduini: il piano di Netanyahu
Il secondo è chi amministrerà la Striscia di Gaza. Perché per Netanyahu non dovrà essere né Hamas né l’Autorità nazionale palestinese che sta governando la Cisgiordania. Il primo perché è responsabile dell’attentato del 7 ottobre oltre che un gruppo riconosciuto come terroristico a livello internazionale, pur avendo vinto le elezioni a Gaza. La seconda perché avrebbe poco credito internazionale “per la profonda corruzione e l’incapacità di governare ancora i palestinesi”.
Chi dovrà amministrare la Striscia nei piano di Netanyahu? “Si appoggerebbe ai clan beduini“, ci spiega Giusti. “Alcuni si sono già fatti avanti. Cinque sceicchi delle città di Ebron e Nablus, il cui portavoce è Wadi Al-Jabari, sarebbero disposti a governare l’amministrazione della Cisgiordania, creando uno o più emirati collegati alle città di Ebron, Ramallah e Nablus dai quali potrebbe poi nascere una confederazione sotto l’area israeliana”.
Al-Jabari si è detto pronto a firmare gli accordi di Abramo e a riconoscere lo Stato di Israele. “Tutto questo praticamente metterebbe fine allo Stato palestinese e creerebbe dei micro-regni personali degli sceicchi, che farebbero da padroni su pezzettini della Cisgiordania, cedendo altri pezzi ai coloni”.
Anche a Gaza nord c’è uno di questi clan. Si chiama Tarabin, è presente anche nel Sinai, in Egitto e in Giordania, e sta già lavorando con Israele. “Il problema è che il capo, Abu Shabab, è un criminale riconosciuto, è stato arrestato da Hamas per traffico di droga e armi con l’Egitto”.
In generale, questi capi beduini sono poco affidabili ma in Cisgiordania rappresentano il 35% circa della popolazione e a Gaza il 15-20%. Sono armati, organizzati e sembra che abbiano già preso il controllo di una parte significativa degli aiuti che arrivano nella Striscia di Gaza.
Beduini al governo di Gaza: “Rischio scontri militari violenti a Gaza e in Cisgiordania”
“Appoggiarsi ai clan beduini, che non hanno mai avuto un’entità territoriale, o una vera amministrazione, e governano ancora con le leggi tribali, non è una soluzione per il popolo palestinese. Ma è sicuramente utile a Israele, perché si formerebbero dei Paesi satelliti e metterebbero la parola fine a qualsiasi velleità statuale palestinese”.
Questa soluzione è appoggiata dall’ala estremista del governo di Netanyahu, tra cui il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich. Ma “non credo che qualcuno la accetterà a livello internazionale. E soprattutto comporterebbe scontri militari interni molto violenti sia in Cisgiordania che a Gaza”.