Mattarella per altri 7 anni, l’Esercito di Terracotta si è arreso a se stesso

Ciò che è successo nell’ultima settimana è stata una delle pagine più squallide nello scenario politico italiano.

Chissà se quello di stanotte è stato il sonno dei giusti per i 759 parlamentari che, dopo una settimana oscena, hanno deciso di porre fine alla farsa. Forse il loro riposo notturno è stato come quello di un universitario che getta la spugna e riesce a dire ai genitori di non aver dato nessun esame all’università, proprio nel giorno in cui avevano prenotato il ristorante e chiamato i parenti, anche quelli più detestati, per sbattere loro in faccia la pergamena del loro figliolo diventato dottore.

Ecco, ci avevano fatto credere di essere dei laureandi in politica, i 759 fuori corso a nostre spese, quelli che volevano aprire l’aula come una scatola di tonno, gli altri che parlavano di Patria, quelli altri ancora che non parlano di nulla perchè abituati ad annusare il vento come un cane cerca l’ombra di una persona dispersa: loro stessi e le belle parole di gioventù, prima di diventare dei perdigiorno spaventati dallo scioglimento delle Camere, come un vampiro all’alba. Sono finiti assiepati, indistinti: un Esercito di Terracotta intorno al nulla, ma disordinatamente, a differenza degli immobili che hanno almeno conservato la dignità di un portamento ossequioso, le distanze tra gli uni e gli altri. Loro no, sono un miscuglio di sapori e idee soffocate nella culla, anche se non facevano rumore.

Dovevano cucinarci la pietanza del rinnovamento, il nuovo, elaborato da chi ha coscienza dei tempi e la misura da attribuire agli eventi, costruendo il futuro. Dalle cucine è uscito uno chef febbricitante che ha scribacchiato l’ortografia stantia di un soufflé riscaldato. L’overture della farsa e il suo suggello è stato il ricovero di Silvio, a pochi respiri dalla rinuncia. Un epilogo penoso per chi aveva vagheggiato l’ultimo slancio, finito prima di cominciare nel tiepido conforto di infermiere intraviste da lontano.

Ma lui, Silvio, ha avuto almeno quel lampo di lucidità, riverberato dalla chioma argentea di Sgarbi, che le ha consigliato di fare la conta prima della prova in Aula. E ha capito che dalla votazione ne sarebbe uscito affondato, con un ultimo bagliore di luci che s’intravede in profondità, lì nell’abisso. Silvio ha incassato, le sue gambe magre e arcuate hanno vacillato. Ha la coscienza dei fatti, almeno loro, gli altri, no.

Come al Parco Lambro negli anni ’70 sono sembrati in cerca della dose per avere l’allucinazione di un presidente, con speranze e buoni auspici tenuti in piedi con le grucce di nomi fatti a caso, un delirio. Hanno giocato a fare i kingmaker. Erano tossici del nulla: sei giorni, sette votazioni, e alla fine 4 minuti di applausi a loro stessi, forse. Quattro minuti che sono apparsi come cura al metadone per accettare la propria insipienza, una congenita incapacità di stare al mondo e giustificare la loro vacuità, lì.

Un posto d’onore in questa farsa l’ha avuta la seconda carica dello Stato, che si è gettata nella mischia senza l’accortezza, prima, di fare la conta dove conta davvero, privatamente. Si è affacciata al baratro con la stessa disinvoltura di uno sbandato su un ponte e ha sfidato la sorte, pensando di uscirne viva, senza accorgersi che era già morta. Ne è uscita con l’aria colpevole e rintronata della donna sorpresa da Mike con un bigliettino nel reggiseno. Lì avevano scritto che poteva stare tranquilla, aveva i numeri.

E’ una strana malattia quella che colpisce le donne che diventano presidenti di una delle Camere. Si finisce indagata per frode come Irene, dopo aver impersonato il ruolo, ancora giovane e forse attraente, con un rigor mortis patetico. Ci si ritrova a guardare il proprio ombelico smunto e a discettare sulle desinenze con l’assertività biliosa della maestrina a cui hanno nascosto un rospo nel cassetto: così fu Laura. Si tenta l’upgrade istituzionale cercando di salire sulle spalle degli zoppi, come Elisabetta.

Più accorto in questa bolgia di studenti invecchiati è apparso Pierferdinando che, a dispetto del suo cognome ha sentito puzza di cadavere, ha fatto i suoi calcoli e si è tenuto lontano dai guai.  Trent’anni fa abbiamo avuto uno stallo simile, e fu scosso dalle stragi di Mafia. Ma uscì fuori un nome nuovo, non l’eterno ritorno in miniatura che una nullità chiamata Parlamento ha riproposto ieri, dopo le prove generali passate a pieni voti con la richiamata in campo di un Napolitano già vacillante. Oggi il nulla trattiene sulla porta Mattarella, 80 anni, che dovrà rimanere lì altri sette. Se l’esplosione di Capaci era un attentato alle istituzioni, l’implosione di ieri, tra gli applausi, è stata un’esplosione, cupa e sorda: quella della Politica incapace di scegliere e rinnovarsi, un’implosione il cui eco si sarà udito all’Inferno. E stanno già lastricando le strade, perchè gli autorevoli dilettanti, padri di questo fallimento parlano di presidenzialismo da varare presto, prestissimo, per nascondere una volta per tutte lo scempio di scene e votazioni come queste. Vogliono nascondersi, certo.

Più le cose cambiano più restano le stesse, scriveva in una lettera un poeta diventato mercante d’armi e di schiavi, prima di morire a 35 anni in un ospedale di Marsiglia. Restano quelli di sempre anche loro, pronti a rieleggere 80enni che non muoiono, sperando di nascondersi e sopravvivere, quanto più possibile, in un Parlamento che loro stessi hanno voluto far morire.

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