Il diavolo veste Prada, un cult?

Nonostante il massiccio successo conosciuto nel lontano 2006, Il diavolo veste Prada è spesso tirato in ballo come un banale film per famiglie, privo di particolari messaggi o qualità espressive. La critica non lo ha mai particolarmente considerato ma, nel ripescarlo dal catalogo Disney Plus, appare evidente quanto il suo amaro messaggio sia più attuale che mai.

Andrea Sachs (Anne Hatway) è sbarcata a New York e, inghiottita dai mastodontici grattacieli di Manhattan, vorrebbe inseguire il suo sogno, diventare una giornalista. Il settore, già in crisi all’epoca, la rifiuterà e, sballottata da un impiego all’altro, si troverà a fare da assistente alla diabolica Miranda Priestley (Meryl Streep), direttrice della rivista di riferimento della moda americana, Runway. Rivista e direttrice sono liberamente ispirate a Vougue e Anna Wintour, in un tripudio di distorta etica del lavoro e magnetica ossessione per la moda. Il film, già dalle prime inquadrature, insiste sui ritmi incessanti della grande mela, prendendo come emblema proprio la temibile direttrice. Sebbene la pellicola abbia più di quindici anni, nelle prossime righe ci asterremo da citazioni in merito ai dettagli della trama, ragionando esclusivamente sui concetti e le sequenze più significative. Ciò che in realtà rappresenta questo film, oltre alle piacevoli love story e all’affascinante affresco del mondo della moda, è un profondo discorso sul successo e su quanto, ognuno di noi, sia disposto a rinunciare pur di ottenerlo: “Fammi sapere quando la tua vita va completamente all’aria, vuol dire che è l’ora della promozione”, una frase del film che descrive con sorprendente precisione le dinamiche estreme di un meccanismo produttivo tanto malato quanto efficiente, capace di generare dei mostri stacanovisti drogati dalla scalata sociale.

Il tutto, a uno sguardo esterno, apparirebbe semplicemente come un inferno da cui prendere le distanze, se non fosse per la presenza di un elemento fondamentale nell’economia della pellicola: la passione. E’ proprio qui che Meryl Streep compie il suo consueto miracolo, attraverso un’interpretazione monumentale, in grado di reggere da sola l’intero assetto drammaturgico della vicenda: Miranda Priestley è profondamente innamorata del suo lavoro, forse ossessionata, ma è esattamente questo che rende il tutto credibile e ciò che giustifica una messa in scena costantemente sopra le righe. Il perpetuo trasudare amore e dedizione, causerà profonda stima da parte di chiunque abbia mai provato una sincera passione e noi, come la protagonista, inizieremo ad amare Miranda Priestley in ogni suo eccesso, in ogni suo rimprovero e in tutti quei fulminanti sguardi. La scelta finale di Andy (Andrea) non può che aggiungere un ulteriore tassello al complesso tema posto dal film, rendendo gli stessi spettatori parte di un tormento esistenziale di grande attualità.

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La reale vittoria del film, infatti, non sta tanto nell’esser riuscito ad emozionare fino in fondo i suoi fruitori, quanto nell’aver generato una netta divisione tra quelli che, come la protagonista, avrebbero avuto il coraggio di rinunciare alla mirabolante carriera, rimanendo fedeli a se stessi, e chi invece, accecato dalla gloria, avrebbe dato ragione a Miranda nel fantastico confronto finale, in cui alla domanda di Andy: “E se io non volessi fare questa vita?, Miranda risponderà “Ah non essere ridicola Andrea, tutti vogliono questa vita…Tutti vogliono essere noi”.

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