L’attrice, sorella di Kim, ha presentato a Notizie.com il suo libro “Io, combatto”, in cui racconta gli ultimi dieci anni vissuti al fianco del figlio Giacomo Sy, affetto da disturbo di personalità borderline e costretto a combattere con i demoni della tossicodipendenza
È stata obbligata al confronto con dei mondi con i quali non avrebbe mai pensato di doversi rapportare. Quelli del carcere, della sanità, della tossicodipendenza. Loretta Rossi Stuart, nota attrice e sorella di Kim, ci si è ritrovata per stare vicina al proprio figlio, Giacomo Seydou Sy, le cui vicende degli ultimi dieci anni hanno in un certo senso fatto epoca per quanto riguarda l’aspetto legislativo e strutturale italiano, mettendo suo malgrado (e sulla sua pelle) a nudo le enormi difficoltà del nostro Paese nel gestire situazioni al limite come la sua. Il ragazzo, oggi 27enne, soffre infatti di un disturbo psicologico di personalità borderline che alterna fasi depressive ad altre di eccitazione maniacale. Una malattia che se viene associata anche alla droga può sfociare in comportamenti sbagliati, seppur inconsapevoli.
Giacomo ci è finito dentro, andando dietro le sbarre nel 2018 per un furto di 65 euro. All’epoca era stato recluso nel carcere di Rebibbia, sebbene quello non fosse il suo posto: sarebbe dovuto andare in una Rems (Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza), ma la lista d’attesa era infinita e così è iniziata l’epopea burocratica per sua madre Loretta, che ha deciso di raccontare tutto nel libro “Io, combatto”, che sarà presentato giovedì 10 marzo a Roma da “Borri Books” (Stazione Termini): “Ci ho messo tre anni – ha raccontato in esclusiva a Notizie.com – a scrivere questo libro che racconta i fatti accaduti nell’ultimo decennio. Il fulcro della storia è appunto questa corsa a ostacoli tra le varie problematiche inerenti l’aspetto sanitario che riguarda le comunità e che poi sconfina nel carcere, per cercare di trascinare verso la luce un ragazzo che per sue fragilità e per la mostruosità della droga ha sempre un po’ proteso verso l’oscurità. Giacomo aveva 18 anni quando è iniziato tutto. Aveva avuto un delirio che è durato diversi giorni, è stato l’incubo peggiore della mia vita, perché non capivo cosa fosse successo. Il libro parte proprio da lì“.
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Un volume che inizialmente è una sorta di opera a quattro mani, visto che all’interno sono presenti anche dei contributi che lo stesso Giacomo scriveva nel suo diario. Poi il discorso passa più che altro alla battaglia portata avanti dalla madre Loretta per ottenere che suo figlio venisse portato in una struttura adeguata: “Se non avessi fatto il ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, probabilmente mio figlio starebbe ancora a Rebibbia. Purtroppo il discorso delle Rems è ancora lo stesso, con liste d’attesa infinite e strutture non sufficienti rispetto alla necessità. Per fortuna c’è stata una nuova sentenza che ci ha riconosciuto anche danni morali, rafforzando quella di un anno fa che aveva fatto sì che venisse scarcerato e posto in un luogo che ancora non era disponibile. Sotto un certo punto di vista è stata una grande vittoria, così come quella giunta con la sentenza della Corte Costituzionale, perché è significato che pure a livello italiano era stato posto un focus sulla problematica delle Rems, dando un anno di tempo al governo italiano per mettersi a norma dal punto di vista legislativo, strutturale e logistico“.
L’obiettivo raccontando questa storia è evitare che si ripetano altri casi come quelli di Giacomo, costretto al carcere solo per mancanza di posti. Una detenzione che tra le altre cose si aggiunge e non viene scalata dal periodo che dovrebbe passare in un centro di recupero: “Quando ho saputo questa cosa mi era sembrata assurda. Ma ragionandoci, ciò che era veramente assurdo era stata la detenzione illegale a Rebibbia per quel piccolo furto. In carcere non vieni curato, lì non puoi che peggiorare. Quindi il fatto che sia rimasto pendente questo anno di Rems, in un certo senso per me è stata una salvezza. Anche perché dopo Rebibbia abbiamo fatto un tentativo in comunità, ma il suo è un caso particolare e quelli come lui nelle comunità normali non ci rimangono. È scappato facilmente e ci è ricascato. Ecco perché servono luoghi appositi di media sicurezza, questa è la mia prossima battaglia“.
Il sogno di Loretta Rossi Stuart è proprio quello di creare delle strutture nuove e adeguate per le esigenze di chi è deve fare i conti con la doppia diagnosi, quindi con problemi psichiatrici e di dipendenza: “La Rems rimane al momento una extrema ratio che in un caso del genere, con recidive e ricadute, rappresenta un’ancora di salvezza. Lì difficilmente può scappare e inoltre viene seguito da dottori. La mia utopistica battaglia però è che si crei una comunità di tossicodipendenti con problemi psichiatrici in un’isola, dove non ci sono sbarre come nelle Rems, ma dove al tempo stesso non possono scappare. Giacomo adesso sta lì, ma nemmeno quello in realtà è il suo posto, perché se non ha crisi psicotiche innescate dalle sostanze, lui è superbamente intelligente ed equilibrato. Poi come tocca una sostanza perde il controllo e può fare di tutto. Le Rems nascono per ospitare malati mentali cronici, ma al momento è certamente meglio rispetto al carcere o allo stare libero ed esposto ai pericoli“.
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Di sicuro il carcere non può essere la soluzione. Anzi, per chi è in certe condizioni può risultare solo un’aggravante: “Non scorderò mai i primi 28 giorni dopo quell’arresto, quando inizialmente venne messo in un reparto normale. A causa del suo stato psicotico si creò una situazione molto brutta con altri detenuti che descrivo nel libro e che ancora adesso mi fa venire i brividi. Un episodio nero, perché non erano preparati a gestire un ragazzo delirante. Venne messo per i primi 28 giorni in isolamento, cosa che mi costrinse a ricorrere alla denuncia via stampa. Andavo lì tutti i giorni chiedendo se fosse quello il modo di gestire un caso del genere. Lui era delirante e lo tenevano 23 ore al giorno in una cella spoglia, perché ovviamente l’aveva distrutta. Non aveva nulla, senza cure del caso. Chiaro che peggiori. Anche uno sano andrebbe fuori di testa. Per onestà intellettuale devo dire che piuttosto che tenerlo libero in uno stato fuori controllo, una madre preferisce quasi che venga arrestato. Ma quella non poteva certo essere la soluzione“.
Un grido di denuncia che adesso si pone come obiettivo quello di proseguire la battaglia, per continuare a sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema: “Sto anche creando una rete di enorme solidarietà tra mamme nelle mie stesse condizioni. Ho invitato tutte loro a scrivermi alla mail movimento.mdd@gmail.com che ho inserito pure nel libro, nel ‘vademecum per madri disperate’. Già molte mi hanno scritto riferendomi le loro storie. Una mamma proprio ieri mi ha raccontato la sua, che al confronto quella di Giacomo è quasi all’acqua di rose. Il problema è enorme e veramente non ha al momento soluzioni. L’obiettivo è essere più forti nel numero per sensibilizzare sempre di più l’opinione pubblica e le istituzioni“.