Pellicola o digitale? Anche Hollywood rimane divisa

Diamo uno sguardo all’annoso confronto tra pellicola e digitale, prendendo ad esempio alcuni dei principali esponenti della discussione e analizzando le principali differenze.

Quella tra il digitale e la pellicola è una lotta ormai storica, da sempre terreno fertile di discordie tra cineasti e causa di una certa confusione, sia nel pubblico generalista, che negli appassionati più accaniti. I detrattori del digitale, nel corso degli anni, si sono ritrovati sempre più isolati nella disperata difesa della pellicola, venendo più volte delusi dal “tragico” passaggio al digitale di numerosi registi, storicamente legati alla sacra celluloide. Dei molti protagonisti di questo cambiamento, possiamo facilmente evidenziarne alcuni tra i più traumatici per i puristi della ripresa analogica, come Martin Scorsese o Woody Allen, entrambi nobili rappresentanti della vecchia guardia che, nonostante un successivo rinnovamento, avevano nutrito, per svariati anni, numerose riserve nei confronti del cinema in digitale. In prima linea per la fazione opposta, curiosamente più giovani dei registi sopracitati, ecco Christopher Nolan e Quentin Tarantino, quest’ultimo protagonista di lapidarie dichiarazioni in merito alla dilagante diffusione del digitale: “Per quanto mi riguarda, la proiezione digitale è la morte del cinema. Il fatto che oggi si proietti quasi solo digitalmente significa che la guerra è perduta. Che il cinema come lo conosco io è finito”. 

Cosa cambia nella pratica?

Senza voler formulare un dettagliato elenco di complesse differenze tecniche, daremo una panoramica riepilogativa di quelli che sono i punti più distanti tra le due tecniche di ripresa. L’argomento più comune, all’interno di una generica apologia della pellicola, è la supposta freddezza delle immagini scaturite da una camera digitale che, unita ad una nitidezza tendenzialmente più marcata, dovrebbe portare ad un risultato meno gradevole, più adatto a prodotti esclusivamente televisivi. Questa visione del digitale risultava plausibile solo agli albori di quella che è, ormai da anni, una tecnologia sviluppata e matura, capace di restituire al DOP (Director of Photography) un materiale qualitativamente elevatissimo ed estremamente malleabile. In un cinema sempre più dipendente dalla post-produzione, la possibilità offerta dal digitale di generare materiale utile, anche in condizioni di luce avverse o non conformi allo standard prefissato, risulta di primaria importanza, velocizzando una serie di meccanismi e aprendo la strada a sperimentazioni tecniche di notevole attrattiva estetica.

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Dove la ripresa digitale non può ancora emulare la pellicola, è in quella caratteristica pasta tanto cara agli strenui reazionari: la distintiva morbidezza di una grana viva, in cui ad ogni diverso fotogramma corrisponde una percettibile variazione, restituisce una sensazione di gradevole omogeneità dell’immagine, difficilmente replicabile con una macchina digitale. Nonostante questa differenza incolmabile, i due stili di ripresa rappresentano due alternative altrettanto valide, dotate entrambi dei rispettivi pro e contro. Il regista, dunque, si troverà davanti ad una scelta prettamente artistica, non influenzata da una reale supremazia tecnica di una delle due possibilità.  

Storaro convince Woody Allen

A testimoniare quanto sia superflua la tecnica impiegata, rispetto a chi concretamente lavora il materiale cinematografico, sono le recenti produzioni del piccolo genio newyorkese, Woody Allen. L’artista dietro alcune delle migliori rappresentazioni audiovisive degli ultimi decenni, si è affidato ormai da qualche anno, allo straordinario Vittorio Storaro, leggendario direttore della fotografia vincitore di tre premi Oscar, il quale ha convinto il diffidente Woody a tentare la tortuosa strada del digitale: “Gli ho detto che era per noi tempo di confrontarci con il progresso. Di fatto, in Italia Technicolor e Kodak non esistono più. Non possiamo restare ancorati a un unico modo di lavorare”.  Così, dopo aver manifestato una spiazzante lucidità per un uomo nato nel 1940, Storaro da prova, prima con Cafè Society nel 2016 e poi con Wonder Wheel l’anno successivo, di poter plasmare la sua inarrivabile arte, anche attraverso il controverso universo del digitale.

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Difatti i risultati, messi a confronto con alcuni dei precedenti lavori in pellicola di Allen, appaiono sensibilmente più ispirati sul piano estetico, dimostrando ampiamente che l’ineluttabile progresso, non debba necessariamente coincidere con un successivo degrado artistico e che l’arte cinematografica, nelle sue manifestazioni più alte, trascenda il concetto di cieca applicazione tecnologica.

 

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