Ogni conflitto porta con sé un analogo livello di spettacolarizzazione mediatica dello stesso, rendendo i cittadini spettatori passivi e indifferenti. Alla crescita tecnologica dei mezzi di comunicazione non corrisponde cioè un’analoga crescita morale.
Ogni volta che scoppia un conflitto la tendenza dell’opinione pubblica è quella, purtroppo, di diventare spettatori di un massacro quotidiano in diretta televisiva. Lasciando un senso di sgomento e impotenza che un po’ alla volta diventa assuefazione.
In questi giorni assistiamo inermi e volti e storie di coloro che finiscono sotto le bombe del conflitto ucraino. Bambini, anziani, soldati che dentro di loro non vogliono fare alcuna guerra: immagini che colpiscono nel profondo e mostrano una realtà che strazia anche i più duri di cuore.
Il tutto, però, passa davanti i nostri occhi mentre le nostre occupazioni restano le stesse. Allora ci si chiede se sia davvero pietà la nostra. Lo ha fatto Antonio Scurati sul Corriere della Sera, e la risposta purtroppo non è affatto rassicurante.
“La differenza di condizione umana tra noi, spettatori della guerra, e loro, vittime o carnefici di essa, è abissale ma non ci si autoassolva pensando che non via sia relazione, rapporto e responsabilità tra queste due sfere comunicanti, eppure separate, dell’esperienza contemporanea”, scrive Scurati.
Nelle nostre case entrano immagini di palazzi sventrati, di intere famiglie in fuga e di uomini e donne in lacrime. Da tre decenni siamo ormai “telespettatori totali della guerra”, di una guerra che accompagna l’umanità da sempre. Ma che si è fatta più viva dall’inizio della Prima guerra del golfo e del primo bombardamento su Baghdad in diretta televisiva mondiale.
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Purtroppo, però, a quella cronaca in diretta grazie all’ausilio della nuova tecnologia non sembra essersi accompagnato un altrettanto fecondo progresso morale, anzi. Guardiamo al male in faccia e, impotenti o indolenti, non sappiamo come muoverci.
“Ciò che cominciava quella notte era soltanto un’altra fase della storia della visione in Occidente, una fase in cui la compassione e la coscienza morale si sarebbero progressivamente atrofizzate”, scrive Scurati. Oggi la realtà è che dalle proprie case si guardano le immagini di guerra e distruzione, forse, con ancora maggiore indifferenza.
Papa Francesco da anni denuncia una vera e propria “globalizzazione dell’indifferenza”. E in certi casi, come accaduto con il terrorismo islamista ma anche con ogni altra guerra, la potenza mediatica diventa un’altra arma da fuoco tra le tante. Che si va aggiungere, e non a sottrarre.
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Così la guerra diventa nuovamente una macchina mitologica di senso e di “redenzione”, da una parte il bene dall’altra il male. Il primo però consiste sempre nella propria parte, e il secondo nel nemico, come accade di fatto per gli stessi eserciti che si combattono sul campo. Oggi la stessa guerra è “combattuta” ancor più in prima linea grazie agli smartphone e ai social, capaci di riprodurre all’infinito ogni colpo di mortaio e in prima persona, portandoci tutti lì nello stesso momento. Alcuni, rischiando di finirvi colpiti, altri, magari, sorseggiando una bibita dal proprio divano.